Apologia del 3 + 2
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di Francesco Pastore (Professore Aggregato di Economia Politica presso la Seconda Università degli studi di Napoli)

 

Solo teoria oppure teoria e pratica?

Appena si parla del bisogno di introdurre nell’università italiana anche attività formative di tipo pratico, i professori universitari italiani insorgono. Molti docenti non riescono a vedere che non c’è solo la teoria e che non c’è contraddizione alcuna fra teoria e pratica. Non solo loro, ma anche tanti giovani e meno giovani che essendosi formati nella università italiana non riescono a guardare oltre.

I giovani, però, hanno bisogno di teoria e pratica. Solo teoria, non sai far nulla. Solo pratica sei un praticone e non sai fare nulla di nuovo. Entrambe sono fondamentali. Invece, il nostro sistema produce solo teoria. Questo è il problema. Difendere la formazione teorica in Italia, come fanno molti, è tempo sprecato. Noi ne facciano già tanta.

Quale l’alternativa? Il professore deve fare sempre il professore, per carità. Però, non è solo la sua singola materia che conta nella formazione del capitale umano dei giovani. Il capitale umano non si fa solo in aula. Bisogna, invece, consentire un mix di strumenti didattici.

L’organizzazione degli studi

L’organizzazione degli studi deve essere tale per cui un minimo di cernita degli studenti ci deve essere. Chiamiamolo orientamento. Rivalutiamo anche gli istituti tecnici affinché formino davvero al lavoro, come facevano un tempo. Ciò consentirà di far arrivare all’università chi è realmente motivato a farla e chi ha un background culturale adeguato. Forse una certa crisi dell’università è un riflesso della crisi degli istituti tecnici, a partire dalla riforma del 1969, che li ha snaturati. Se gli istituti tecnici sviluppano l’apprendistato e aiutano davvero a trovare lavoro, meno gente impreparata andrà all’università, per il beneficio di entrambi: istituti e università.

La domanda di laureati

Il successo dei giovani sul mercato del lavoro, naturalmente, dipende anche dalla domanda di lavoro ad alta qualifica che in Italia resta bassa, anzi si fa sempre più bassa in termini relativi a causa dell’aumento continuo dell’offerta.

Oggi il mercato del lavoro è diverso da 20 anni fa. Prima c’era una domanda di lavoro per laureati quasi infinita e anche senza saper far nulla, si trovava quasi sempre lavoro da laureato.

Oggi il mercato del lavoro è cambiato: da mercato dominato dall’offerta di alte qualifiche a mercato dominato dalla domanda. Non è facile trovare lavoro da laureati, come dimostrano gli altissimi tassi di disoccupazione intellettuale, i salari bassi e l’overeducation incalzante.

Però, possiamo fare qualcosa per aumentare la domanda e spingere le imprese a valorizzare i laureati. Innanzitutto, occorre favorire la crescita. Poi c’è il discorso dei tanti tappi che impediscono alla domanda di laureati di aumentare in modo adeguato. Inutili esami farsa impediscono ai giovani un accesso alla professione, senza fornire alcuna preparazione post lauream. Si dovrebbero fare piuttosto corsi avanzati e professionalizzanti di qualità per avvocati, commercialisti, medici. La mancanza di programmazione fa sì che si continui a far laureare, solo per fare qualche esempio, un numero di farmacisti, musicisti, insegnanti delle scuole, di gran lunga superiore al fabbisogno dei relativi settori.

Accelerare le transizioni scuola lavoro

Poi c’è la lentezza con cui i giovani sviluppano le cosiddette abilità lavorative collegate al lavoro. Un piccolo passo in avanti lo si fa già se si insegna al giovane come si applica la teoria, ad esempio attraverso banali esercitazioni, spesso mancanti in molti corsi di laurea. Là si sviluppa quella che viene chiamato lo skill del problem solving.

La tendenza di molti laureati, quando trovano lavoro, a fare solo cose da praticoni senza capirle davvero è proprio la conseguenza dell’approccio solo teorico loro impartito all’università. Non hanno sviluppato l’abilità del problem solving. Magari conoscono la legge, ma non la sanno applicare. Allora la loro teoria non gli serve. Nonostante tutta la teoria, paradossalmente, sono solo pratica.

Spesso i professori sono sorpresi della incapacità di applicare la teoria da parte degli studenti, dimenticando che loro stessi hanno imparato le applicazioni non leggendo libri, ma nella pratica.

Non è questione di seguire passivamente il modello americano, se non come schema nel quale non è bandita anche una conoscenza non meramente teorica, come invece si tende a fare in Italia. Basterebbe, ad esempio, che dopo aver insegnato i principi di procedura civile si spiegasse agli studenti anche come si fa una citazione. In un corso di economia aziendale, si insegnasse come un revisore contabile dovrebbe fare a individuare un nuovo caso Parmalat e così via discorrendo. Niente di così trascendentale. Renderei anche obbligatoria un’esperienza di stage nell’ultimo anno per accelerare il passaggio al lavoro.

Le work-related skills

Per formare il capitale umano ci vogliono molti anni e quindi l’università non può prendersene carico appieno. Perciò i lavori, soprattutto quelli ad alta qualifica, durano tutta la vita, si impara sempre. Però, l’università può diventare un trampolino di lancio! Un bravo medico, ad esempio, è quello che conosce bene la medicina prima di tutto. Poi, però, se non ha mai visto un paziente, non sa curarlo.

Esistono master di successo nei quali oltre alla formazione teorica c’è quella pratica, affidata non a docenti di ruolo dell’università, ma a docenti a contratto provenienti dalle professioni che introducono a diverse attività che poi si incontrano nel mondo del lavoro. Il giovane che segue questi master ha già fatto preparazione teorica all’università ed ha quindi bisogno di altro.

Questo non vuol dire, però, pratica senza teoria. Sono fortemente contrario ad una formazione puramente pratica. Le conoscenze generali sono la migliore assicurazione contro il cambiamento strutturale: senza solide basi generaliste si ha difficoltà ad adeguarsi al nuovo! Eppure il nuovo è oggi sempre all’ordine del giorno. Nel giro di 10 anni cambia tutto nel lavoro e bisogna acquisire soprattutto la capacità di adeguarsi al cambiamento. Ci vorrebbe, perciò, il life-long learning: corsi di formazione professionale lungo tutto l’arco della vita delle persone. E di nuovo, forse a causa dei nostri pregiudizi, siamo molto indietro anche in questo.

Il problema dell’equità

Beh, certo, in un modo o nell’altro, se c’è domanda di lavoro ad alta qualifica, l’esperienza lavorativa si può acquisire, prima o poi direttamente sul mercato, ma non sarebbe meglio se l’esperienza fosse fatta sotto la guida dell’Università? Sarebbe sicuramente fatta meglio.

C’è anche il problema dell’equità! Molti giovani senza una guida non riescono mai a trovare la cavia sulla quale esercitarsi o ci mettono anni a trovarla! Questo spiega le difficili transizioni dalla scuola al lavoro in Italia, soprattutto dei più deboli.

Questo è un punto chiave: la preparazione meramente teorica senza esperienza pratica, senza orientamento in uscita, non consente all’università di raggiungere davvero l’obiettivo che la Costituzione repubblicana le assegna all’art. 34. Per riuscire finalmente a raggiungere il proprio obiettivo di aiutare la mobilità sociale, l’Università deve assumere come propria missione non solo la preparazione dell’istruzione generale, ma del capitale umano a tutto tondo, compreso quindi l’esperienza lavorativa generica e quella specifica ad un certo posto di lavoro.

Ci sarebbe un beneficio per tutti: giovani preparati a tutto tondo, minore disoccupazione giovanile, transizioni scuola lavoro più veloci e maggiore equità, che non guasta in una società dove ancora vigono quasi delle caste.

I vantaggi del 3+2

Per me la formazione medica è una delle migliori proprio perché dopo la teoria garantisce anche la pratica attraverso le cliniche. Ci vorrebbero le cliniche, per così dire, in tutti i percorsi di laurea.

La soluzione è senza dubbio nella diversificazione dell’offerta formativa. Il 3+2 era la risposta giusta al problema, ma è stato sprecato, poiché non è stato capito, in primo luogo dalla classe docente, che l’ha lentamente, ma inesorabilmente neutralizzato, normalizzato, ridotto a quel passato che aveva il compito di riformare. Il 3+2 era la soluzione: triennio generalista, ma biennio specialistico, magari con specializzazioni diverse in diverse università, per consentire ai giovani di aprirsi strade diverse, percorsi diversi l’uno dall’altro.

 

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