Eppur si muove! La scuola italiana di fronte alle sfide del pluralismo religioso
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di Valeria Fabretti (sociologa)

Diversi fenomeni alimentano ormai da decenni l’intensificarsi del pluralismo religioso anche nel nostro paese. Alcuni maggiormente ‘datati’, come l’accentuarsi delle differenze interne al mondo cristiano-cattolico o alle forme di spiritualità soggettive, altri più strettamente attuali: in primis, la presenza di fedi ‘altre’, in buona parte legata ai processi migratori, e quel che i sociologi della religione chiamano ‘de-privatizzazione’ delle religioni. Fenomeno, quest’ultimo, che indica come, contrariamente a quanto prefigurato dalle classiche teorie della secolarizzazione, le religioni possiedano una persistente rilevanza nello scenario contemporaneo e rivendichino un ruolo nella sfera pubblica, una voce nelle discussioni su questioni d’interesse collettivo e il diritto a essere praticate nei diversi spazi della vita sociale.

La scuola può essere letta esattamente come uno degli spazi – cruciale, sicuramente specifico ma anche ‘esemplare’ – in cui si riversano sempre più evidentemente pluralismo e de-privatizzazione delle religioni. In primo luogo, pur in assenza di dati sulle appartenenze religiose degli alunni (di per sé indicativa del grado di riconoscimento accordato alla questione), la crescita del pluralismo è facilmente stimabile via indicatori quali: numerosità e provenienze degli alunni con cittadinanza non italiana – dato ormai ‘strutturale’ del nostro sistema scolastico – e l’andamento dei cosiddetti ‘avvalentesi’ dell’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC), in leggero ma costante calo negli ultimi dieci anni (nonostante il fatto che al momento della scelta non siano spesso offerte a genitori e studenti convincenti ‘attività alternative’). In secondo luogo, si rendono evidenti gli ‘impatti pubblici’ di questa ‘compresenza’ – di identità personali e collettive, di visioni del mondo e riferimenti di matrice pluri-religiosa e ‘secolare’ – nei termini delle nuove domande, senz’altro tensioni ma anche opportunità che si giocano sul campo educativo.

Tralasciando il nodo – tutt’altro che marginale, però – delle richieste avanzate dai diversi gruppi religiosi, Islam su tutti, di vedersi riconosciute proprie scuole confessionali, sono molte le questioni che interessano oggi i sistemi scolastici pubblici (o statali) europei (ma non solo) e che richiedono di trovare modi per assicurare compatibilità tra il rispetto di credenze, pratiche e norme di condotta quotidiana (per alcune religioni più pervasive che per altre), da un lato, e la regolamentazione ma anche le routines della vita comunitaria scolastica, dall’altro. Si pensi al nesso tra libertà religiose e libertà d’insegnamento, alla qualificazione simbolico-religiosa nell’abbigliamento personale (la nota ‘questione del velo’, che ha condotto a risoluzioni controverse nel caso francese) e nell’allestimento degli spazi (la querelle sul crocefisso in aula nel dibattito italiano); o ancora, per restare alla categoria dello spazio, alla creazione di ambienti per la preghiera, sale ‘multi-fede’ o ‘di meditazione’, di cui si trovano esempi in scuole superiori e campus universitari europei; si pensi poi alla dimensione del tempo, quindi alla conciliabilità di calendari scolastici e calendari liturgici (con le relative festività) per le varie tradizioni; alla dimensione, infine, del corpo e della salute, che ha a che fare con il rispetto delle norme religiose in materia di cure, igiene e soprattutto alimentazione.

Ma la questione che sembra assumere maggiore urgenza nel discorso europeo riguarda contenuti e metodi d’insegnamento della religione – o delle religioni – nei curricoli scolastici, la cosiddetta Religious Education (RE). Ciò specie a partire dalle crescenti pressioni ‘post-11 Settembre’ da parte degli organismi internazioni (Consiglio d’Europa in prima linea) che sollecitano gli stati a rivedere la propria offerta formativa per una più adeguata rispondenza al carattere multi- delle società. In discussione sono le soluzioni adottate nei vari paesi, che disegnano un quadro ancora eterogeneo e in fieri. Si va da insegnamenti più o meno obbligatori di stampo confessionale (education into religions), di tipo ‘mono’ (come in Italia, seppure il carattere ‘catechetico’ dell’IRC si è andato progressivamente ammorbidendo) o ‘pluri’ (in Germania, Finlandia, Austria); a insegnamenti storico-culturali impartiti dai docenti curricolari (education about religions), intesi come discipline a sé (l’esempio più compiuto è certamente la RE implementata in Inghilterra) o internamente e trasversalmente ad altre materie quali geografia, storia, filosofia (è il caso dell’enseignement laïque des faits religieux recentemente adottato in Francia); fino ad approcci che, in accordo a pedagogie di stampo interpretativo, tendono a guidare gli studenti ad apprendere da tali insegnamenti ‘oggettivi’ delle religioni elementi utili alla riconsiderazione di sé e degli altri (la formula learning from religions, e ancora l’Inghilterra è caso esemplare). Il quadro rispecchia certamente i modelli di secolarizzazione e di laicità, il rapporto storico tra chiese e stati, le concezioni circa il ruolo, peso e spazio delle religioni diffusi nelle varie società. Tuttavia, proprio l’attuale processo di ripensamento della RE, comunque intesa, è un buon terreno su cui osservare gli ‘smottamenti’ degli assetti storicamente consolidati nel vivo contatto con quei ‘torrenti e rivoli’ del cambiamento sociale che la scuola convoglia al suo interno.

Rispetto a questo confronto, il caso italiano denota, sembrerebbe, una ‘doppia anima’: quella ‘disimpegnata’ e rigida delle politiche, almeno a livello nazionale, e quella ‘impegnata’ e flessibile della progettazione e della sperimentazione a livello locale.

Sul primo livello, il sistema vigente, basato sull’IRC (da Concordato e sue revisioni) e su un’ ‘Attività Alternativa’ mai definitasi compiutamente, non è stato sin qui intaccato dalle sporadiche ‘scosse’ provenute dalle proposte legislative in favore, prevalentemente, dell’introduzione di insegnamenti tipo education about religions (ultima l’interrogazione parlamentare proposta dal Movimento 5 Stelle, prima la proposta di legge ‘Melandri’ del 2010 e l’inclusione del punto entro le più articolate e ancore inevase proposte di legge sulle libertà religiose). La questione non trova spazio neppure nella programmazione dell’attuale Governo, a giudicare dall’assenza di riferimenti all’alfabetizzazione religiosa (pressoché ovunque riconosciuta come ‘urgenza’) entro quel ‘Ripensare ciò che si impara a scuola’ previsto ne ‘La Buona Scuola’ (di cui molto si è discusso in questo Blog). Dal canto suo, il discorso pubblico ha alternato silenzi, saltuarie aperture (si ricorderanno le dichiarazioni dell’ex Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo nell’estate del 2012 sulla desiderabilità di un cambiamento e quelle dell’allora Viceministro allo Sviluppo Economico, Adolfo Urso, nel 2009 in favore dell’introduzione dell’’ora di Islam’) e picchi ideologici (esemplare, la ‘crociata’ per l’introduzione del ‘crocefisso obbligatorio’ nelle aule scolastiche propugnata dal Sindaco di Padova, il leghista Bitonci, nello scorso giugno 2014).

Insomma, non diversamente da quel che emerge dall’osservazione di altri indicativi spazi della sfera pubblica che si confrontano con il pluralismo religioso (carceri, ospedali, etc.), il caso della scuola manifesta, vicoli giuridici a parte, una cultura politica che sembrerebbe dotata ancora di scarsa consapevolezza – circa il peso delle religioni nella società, la praticabilità della loro relazione con la pur ‘neutrale’ sfera pubblica, la difesa delle differenze, anche religiose, come valore – e capacità riflessiva – come disposizione a mettere in questione principi e scelte e come capacità di ‘pensare se stessi in modo diverso’ nel confronto con le differenze –.

Esattamente su questo terreno sembra misurarsi la distanza da quell’idea di società post-secolare da intendere proprio, in sostanza, come spazio plurale in cui s’innescano processi non oppositivi ma di ‘apprendimento complementare’ tra religioso e secolare.

E però, a livello locale – dove l’evidenza di uno scenario mutato s’impone e dove il rapporto tra studiosi del tema/società civile/gruppi religiosi e istituzioni, frustrato a livello nazionale, si fa più fecondo – consapevolezza e riflessività maturano e molte sperimentazioni stanno fiorendo.

Grosso modo, possiamo rintracciare, a partire dalla poca letteratura disponibile e dalla conoscenza diretta, almeno due tipi di iniziative. In un primo insieme rientrano le esperienze di ‘educazione interculturale’ o alla cittadinanza che si basano su occasioni di incontro e di dialogo tra studenti e tra studenti e membri delle varie comunità religiose, realizzate tra le mura scolastiche e/o attraverso la visita ai luoghi di culto. E’ il caso, ad esempio, dell’esperienza decennale (1998-2008) promossa dal Tavolo Interreligioso di Roma, che ha condotto nelle scuole romane esponenti ‘ufficiali’ dei principali gruppi religiosi presenti nella Capitale; o della non dissimile proposta del Centro Astalli attualmente rivolta ad alcune classi di scuole secondarie di Roma; o, ancora, del programma Face to Faith della ‘Tony Blair Faith Foundation’, approdato, grazie ad un’intesa del 2011 con il MIUR, in alcune scuole secondarie di I grado italiane per favorire il dialogo tra studenti di culture e religioni diverse anche grazie agli strumenti della rete multimediale. Un secondo insieme di progetti è teso piuttosto all’innovazione e alla ‘messa a punto’ della didattica. Tra i principali, i corsi di ‘Storia delle religioni’ destinati a partire dall’a.s. 2010/2011 ad insegnanti e studenti delle scuole di Roma e Torino grazie alla collaborazione tra università (Università di Torino, Roma Sapienza, Roma Tre) e associazionismo (‘Acmos’, ‘UVA-Universoaltro’, ‘Benvenuti in Italia’); o il programma ‘Intercultural Education through Religious Studies’, attualmente coordinato dall’Università Ca’ Foscari Venezia, per la sperimentazione di moduli digitali nella didattica applicata alle religioni; o le molte iniziative didattiche realizzate a livello dei singoli istituti (tra gli ultimi il caso del corso di cultura islamica sperimentato l’anno scorso come ora alternativa in una scuola superiore di Cosenza).

Si tratta naturalmente di percorsi molto diversi, alcuni più e alcuni meno consolidati, e certo non privi di criticità. Tuttavia, che siano spazi interni o alternativi all’IRC, che vedano la collaborazione con gli insegnanti di religione, con accademici o con esponenti delle stesse comunità, queste esperienze dimostrano, mi sembra, che neutralità può non essere disimpegno e cecità, e che accoglimento e valorizzazione delle differenze religiose nelle suole italiane sono possibili senza veri e propri stravolgimenti ‘di sistema’ (che, se condizione necessaria per un pieno riconoscimento del pluralismo, oggi appaiono comunque ben lontani da venire).

Di più. Queste esperienze – specie quelle che si sono servite dell’apporto degli stessi gruppi religiosi e che hanno dato così spazio ai ‘vocabolari’ (principi, visioni del mondo) di carattere religioso entro un discorso propriamente ‘secolare’ (regolato, condiviso, equidistante, escludente, per intenderci, proselitismi etc.) – parlano esattamente di consapevolezza e riflessività; parlano di scuole, queste sì post-secolari, che si fanno laboratorio di un ripensamento del rapporto tra secolare e religioso come rapporto che esclude antagonismo o incompatibilità di principio e che sposa, piuttosto, il mutuo riconoscimento e la disposizione ad ‘imparare dalla diversità’.

Si tratta ora forse di fare il punto, possibilmente in una rigorosa analisi di quanto sin qui realizzato, e di ricercare un livello intermedio tra macro e micro, dove esperienze estemporanee e autoreferenziali trovino maggiore sistematicità e raccordo.

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