di Maddalena Colombo (professore associato di Sociologia dell’educazione, Università Cattolica di Milano)
Si parla spesso di “crisi del welfare”, a seguito della diminuita liquidità destinata alla spesa sociale e non possiamo non vedere in questo una minaccia concreta anche per il sistema educativo che, in Italia, si basa massicciamente sulle finanze pubbliche.
La preoccupazione è realistica (la domanda di spesa sociale è passata dal 25,4% del PIL nel 2007 al 28,4% nel 2011 – fonte: Rapporto CRISS 2013); ma, a ben vedere, questa minaccia è apparsa sullo scenario nazionale ben prima dell’ultimo “tracollo finanziario” del 2008 che ha toccato le economie occidentali ed ha messo sotto pressione, in particolare, il modello di spesa sociale adottato dall’Unione europea. Se i servizi di welfare hanno la duplice funzione di “protezione” e di “perequazione”, è evidente a tutti che – nella difficile fase attuale – il welfare non ha evitato l’insorgere di nuove categorie sociali vulnerabili (come i working poors – chi ha il lavoro ma il suo salario perde potere di acquisto – e gli unemployed – chi perde il lavoro o non lo trova affatto). Pur nelle diverse impostazioni di fondo, non ha creato una maggiore opportunità per tutti di “salire la scala sociale”, bensì ha generato maggiori disuguaglianze attraverso un’offerta di servizi più selettiva e con diversi gradi di qualità delle prestazioni. Ciò è vero in molti paesi d’Europa, ma non in tutti (nell’area continentale e mediterranea ben più che nell’area scandinava).
E’ bene anche ricordare che i servizi di pubblica utilità sono stati ri-organizzati attorno alla fine degli anni ’90 (a causa della crisi di legittimazione, delle scarse coperture finanziarie e dell’introduzione del principio di sussidiarietà) in un sistema plurale, detto welfare mix, in cui non solo lo Stato ma anche la società civile partecipa nell’erogazione delle prestazioni, garantendo la maggiore prossimità tra i bisogni dei singoli cittadini e le risposte. Ma tale formula ha rinforzato o indebolito l’idea originaria di solidarietà e di diritto del cittadino a stare bene, attraverso interventi di “compensazione” dei meccanismi selettivi del mercato?
Difficile rispondere a questa domanda guardando all’Italia, dove Il regime di welfare adottato non ha mai corrisposto ad un modello “puro”, come in Scandinavia o nell’area anglosassone. In sociologia si usa ricorrere alle nomenclature più svariate: welfare non assistenzialistico (bensì di tipo riformista), welfare familistico basato sulla presunzione che sia la famiglia (e il capofamiglia per definizione, cioè l’uomo) intestataria delle prestazioni e reale “ammortizzatore sociale”, o più semplicemente welfare meridionale.
L’anomalia, o la peculiarità italiana, è costituita da un sistema pubblico egemone solo nell’area dell’istruzione, mentre nelle altre aree di prestazioni del welfare – dall’assistenza, alla previdenza alla sanità –altri attori hanno conquistato la propria “fetta di mercato”, talvolta a beneficio della qualità (es. servizi prima infanzia), talaltra in ossequio ad una impostazione particolaristico-clientelare (es. la formazione professionale nel sud, l’istituzionalizzazione della cura degli anziani, la fornitura di asili nido nel centro Italia ecc.) ed inefficiente (come l’inutilità dei centri per l’impiego in un paese con così alti tassi di disoccupazione, anche giovanile).
Altra caratteristica del nostro welfare: viene “sostenuto” in gran parte dal solo comparto del lavoro dipendente, a causa della elevata evasione fiscale del lavoro autonomo; d’altra parte, i lavoratori autonomi e gli inoccupati non trovano sufficienti protezioni sul versante previdenziale. Un welfare dunque “a macchia di leopardo”.
Con l’avvento della più recente recessione in Europa (2008) si è avvertita diffusamente la possibilità che il modello della SEO (Strategia Europea per l’Occupazione, scaturita dagli accordi di Lisbona, che mette al centro dell’erogazione di welfare l’obbligo di lavorare da parte del cittadino – da cui il cosiddetto workfare) non sia più sostenibile. L’allargamento della fascia di cittadini senza lavoro (europei di nascita, ma anche immigrati venuti in Europa a fronte di una domanda di lavoro che poi è calata) genera il bisogno di un nuovo indirizzo nelle politiche della spesa sociale. Inoltre, insistere sulla “retorica” della società della conoscenza, quando la domanda di knowledge workers declina, è controproducente per la coesione sociale.
Dove il lavoro non c’è, a cascata, non può funzionare il workfare (servizi in cambio di lavoro). La cosiddetta “svolta neo-liberal” dell’ultimo decennio, adottata anche in Italia per de-centralizzare i servizi alla persona, migliorarne l’efficienza, e “mettere sul mercato” le prestazioni di welfare, purtroppo non ha giovato né sul piano della protezione e della creazione di impiego, né su quello dell’uguaglianza. Si osservano nel nostro Paese: nuove sacche di povertà, impoverimento dei ceti medi, aumento delle famiglie con minori a rischio povertà, tagli alla spesa per l’istruzione, bassa qualità degli apprendimenti di base dei 15enni (Ocse Pisa) e degli adulti (Piaac), riduzione del tasso di immatricolazione (indicatore della “voglia di education”) e della propensione alla formazione.
A seguito della crisi, inoltre, i dati sul sistema educativo mostrano: un perdurare della dispersione scolastica (malgrado qualche successo recente al sud), sia come tassi di abbandono precoce (ESL) sia come tassi di ritardo; un aumento dei giovani che non studiano e non lavorano (NEET); una forbice territoriale significativa con il sud marcatamente più arretrato rispetto a centro e nord in tutti gli indicatori (ad eccezione dei dati Ocse-Pisa dove il gap regionale si va assottigliando, cfr. Ascoli–Pavolini 2012); una maggiore diseguaglianza sociale nei risultati (si allarga la forbice tra coloro che riescono negli studi “grazie” a una famiglia con più elevato capitale culturale o reddito); una scarsa efficacia delle misure di school-work transition, da cui la “scarsa propensione educativa” degli italiani (Istat, 2013, p.29).
Non c’è dubbio, in un quadro già “sotto osservazione” rispetto alla lente europea, anche il welfare educativo in Italia non ha aggredito le cause né le conseguenze della crisi: lo riconoscono facilmente gli insegnanti e i dirigenti scolastici che si sono visti chiedere maggiori sforzi professionali, a fronte di inferiori riconoscimenti e supporti.
Si fa strada pertanto il modello dell’investimento sociale, in risposta alle debolezze di questo welfare. Proposto da economisti e filosofi della politica, come James Heckman, Nathalie Morel, Gosta Esping-Andersen, ha ispirato i recenti documenti della Commissione europea (2013 a, b) che correggono la strategia Lisbona 2020 ri-denominata “per l’inclusione attiva”. Si riduce l’enfasi sulla flessibilità e si torna al tema dell’inclusione, fermo restando il dovere del soggetto di attivarsi per trovare lavoro e non farsi “intrappolare” dalla povertà. Secondo i teorici del social investment la più efficiente spesa sociale è quella compiuta «a monte», per migliorare le condizioni e gli skills dei bambini di 1-6 anni.
Questo approccio si adatta particolarmente bene a fare dell’educazione un nuovo pilastro del welfare, perchè si riferisce a tempi lunghi, intervalli generazionali, e a un bene pubblico universalmente apprezzato. Inoltre è indipendente dalla congiunture del mercato del lavoro perché si rivolge ai “futuri” lavoratori e mira, nei confronti di quelli in età lavorativa, ad una loro più larga partecipazione (vedi le madri) e attivazione. Infine, intervenendo precocemente sulle povertà e gli stati di deprivazione (anche cognitiva), risulta più efficace nella riduzione delle disuguaglianze sociali. Non è un caso che molti paesi in Europa stiano “ricalibrando” le proprie politiche di spesa pubblica su di esso.
Ebbene, di fronte alle dinamiche correnti, qual è la distanza che ci separa da una impostazione di social investment che dovrebbe porre al centro l’educazione e le nuove generazioni e ridare fiato al mondo educativo finora assai svalorizzato?
Non è il caso di ricorrere ad espressioni ormai abusate per definire un Paese a forte de-natalità e costante invecchiamento, dove i giovani sono visti (da adulti e anziani) come “bamboccioni” e restano a lungo fuori dalle dinamiche del mercato del lavoro. Il loro contributo al welfare sembra solo indiretto (in quanto costo e non risorsa) ed è forse questa la causa della diffusione, negli strati sociali medi e bassi, di una nuova filosofia di auto-realizzazione detta “school-free” (realizzazione a prescindere dall’istruzione).
Volendo comporre un quadro interpretativo “istantaneo”, attraverso i dati del MIUR e ISTAT, possiamo invece affermare che a questo insieme di sfiducia, ribellione, scoraggiamento, ecc. il sistema scolastico ed universitario italiano sta rispondendo, in misura tutto sommato superiore alle attese. Sta mostrando inattesa «resilienza»: prosegue nell’uguaglianza dell’accesso e opportunità, tempera le disuguaglianze di risultato offrendo 2° chance, si conforma gradualmente ad uno scenario europeo e internazionale (digitalizzazione, accountability, strumenti auto-valutativi ecc.).
Notiamo infatti alcuni indicatori positivi: a fronte di una netta riduzione della spesa per istruzione (dal 25,8% del PIL procapite nel 2008 al 24,5% nel 2010 per l’insieme dei livelli di istruzione – fonte: Eurostat), le scuole mostrano una “tenuta” della capacità di accoglienza di domande generali e specifiche riguardo all’istruzione:
Tasso di presenza alunni in anticipo scolastico (dal 2,8% nel 2009 al 5,3% nel 2011)
Tasso di presenza di alunni portatori di handicap (dal 2001 al 2012 è aumentata con gradualità passando dal 2 al 3% nelle scuole primarie, dal 2,5 al 3,7% nelle secondarie di primo grado)
Tasso di incidenza di alunni con cittadinanza straniera (dal 2011 al 2012 è aumentata in tutti i gradi scolastici, e nella secondaria di secondo grado è quasi raddoppiata, dal 6,8 al 12,2%)
Redistribuzione degli alunni stranieri tra i diversi indirizzi di scuola secondria (“de-segregazione”): gli iscritti al liceo passano in 10 anni da 21,9% al 22,9% mentre gli iscritti ai professionali passano dal 42,6% al 38,6%
Tasso di popolazione 30-34 anni con Isced-6 (cioè una laurea breve) passa dal 15,6% nel 2004 al 21,7% nel 2012, segno che un antidoto contro la disoccupazione giovanile sta affermandosi in strati più larghi della popolazione
Conclusioni: Il sistema educativo non rispecchia (fortunatamente) in modo lineare gli andamenti del welfare. Infatti – nel periodo nero del welfare – l’education mostra indicatori «misti», di decremento ma anche di tenuta delle risposte ai dinamismi sociali. Tuttavia il nesso è sempre più forte e sarà utile affermarlo a vari livelli, in vista della ripresa, per le politiche di investimento sociale
Riferimenti Bibliografici
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Commissione Europea, Towards Social Investment for Growth and Cohesion – including implementing the European Social Fund 2014-2020, Brussels, 20.2.2013, COM(2013) 83 final
Cnel, Università Cattolica, Università La Sapienza, Percorsi locali di riforma del welfare e integrazione delle politiche sociali, rapporto di ricerca, Roma, 2010.
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Istat, Rapporto sulla coesione sociale. Anno 2013, Roma.
Morel, N. Palier, B., Palme, J. (2011), Towards a Social Investment Welfare State?, Bristol: Policy Press.
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